No. No. E ancora: no.
Sarebbe come cadere dalla bicicletta e dare la colpa ai pedali.
Non è colpa di TikTok. La povera Antonella, la bambina morta per asfissia a Palermo, probabilmente stava seguendo un gioco “a prove” su TikTok. E proprio quel “probabilmente” mette in gioco tutta l’intelligenza di cui siamo capaci. Ricordando che non è intelligente chi “sa tante cose”, ma chi è in grado di leggere e interpretare in profondità le situazioni che la vita ci pone davanti. Intelligenza deriva infatti dal latino intus/inter (entro, fra) e lègere (scegliere, raccogliere). È intelligente chi sa giudicare le situazioni entrandoci in profondità.
La vicenda è dolorosa e delicata. Ma alcuni spunti di riflessione, nel rispetto della piccola Antonella, sono opportuni.
1. «sfida social»? Non lo sappiamo (ancora)
Primo aspetto: non è chiaro se la piccola stesse seguendo delle sfide su TikTok. Al momento in cui scriviamo sono in corso le indagini. Pertanto argomentare, anche sui giornali o in rete, con affermazioni secondo cui la piccola sarebbe morta seguendo un tragico gioco sul social media, è semplicemente sbagliato. Alcuni esempi? Basta leggere i titoli dei giornali all’indomani della tragedia:
- Corriere della Sera – Antonella, morta per una sfida su TikTok. Il papà: «Il web era il suo mondo. Controllarla? Mi fidavo»
- Repubblica – Antonella, morta per sfida su TikTok. La sorellina: “Era il gioco dell’asfissia”
- Avvenire – «Sfida estrema sui social»: bimba di 10 anni muore soffocata
- FanPage – Palermo, morte cerebrale per la bimba che ha partecipato a una challenge su Tiktok
Nell’attesa del pronunciamento delle indagini, non è corretto puntare il dito contro quello che molti definiscono il social media dei balletti. Anche perché, a dirla tutta, da una ricerca su TikTok pare proprio che di challenge che siano contemporaneamente così “sfidanti” e facili da reperire per una bambina di 10 anni non ce ne sono, come argomenta Claudia Torrisi su ValigiaBlu.
2. Caro social, ti regalo un pezzo di responsabilità
Secondo aspetto: nelle idee che ci formiamo (e che esprimiamo parlando con altre persone o commentando on-line) come naturale forma di autodifesa tendiamo a dare sempre la colpa a qualcos’altro. I media, il cellulare, il tempo perso sui display, eccetera. Tranquilli (per modo di dire): è una cosa che si protrae da secoli. La “colpa” è sempre stata delle nuove fabbriche, delle automobili, dei velocipedi (ehm… biciclette), della TV. E ora tocca ai social media.
Provando, per quando possibile, a fare appello a un pizzico di quell’intelligenza di cui parlavamo all’inizio, questa è una forma di de-responsabilizzazione: si attribuisce a un agente esterno (il social media) la responsabilità su un atto che avremmo dovuto gestire noi stessi. In altre parole è un’ammissione di volontaria fragilità: ragionare in questo modo significa che non siamo persone sufficientemente libere, capaci cioè di compiere responsabilmente scelte e azioni, ma siamo assoggettate a una tecnologia che, facendoci fare un gesto piuttosto che un altro, di fatto possiede una parte della nostra libertà.
Non è un male essere fragili. Significa però che c’è bisogno di riconoscerlo per aiutarsi a vicenda, avendo cura di condividere ciò che si sa e ciò che si è e – per contro – avendo anche l’umiltà di accettare un aiuto esterno.
Beninteso: se una bambina di 10 anni si è legata una cintura attorno al collo, evidentemente qualcosa è successo. Ma da qui a dire “è colpa di TikTok” ce ne passa. È più saggio (e rispettoso nei confronti della piccola Antonella) cercare di capire cos’è successo davvero, piuttosto che avventarci affrettati in giudizi.
3. Siamo umani, rispettiamoci
Terzo aspetto (e ultimo: promesso). È buona cosa avere un maggior rispetto delle persone. Sia di Antonella e della sua famiglia – che la grande eco mediatica ha messo al centro dell’attenzione nazionale, come se i familiari non fossero già distrutti dal dolore – sia per chi sta vivendo simili fragilità e potrebbe cadere nel fenomeno dell’emulazione (interessante, su questo, l’analisi di Torrisi nel post linkato anche sopra). Ciò non significa tacere sull’accaduto, perché sarebbe a sua volta un estremo inopportuno: ma vuol dire che sui media noi in primis – e di conseguenza chi scrive su vari siti più o meno giornalistici – dobbiamo avere il coraggio del rispetto, talvolta del silenzio. Ne va del nostro essere umanamente umani, più che disumanamente puntigliosi. Dettagliare i particolari dell’accaduto, del ritrovamento della piccola agonizzante, degli ultimi minuti di vita di Antonella non fa bene. È una forma di inquinamento.
Finiamola qui
In conclusione, è noto che lo strabiliante TikTok non sia il più trasparente dei social media: ci riferiamo al trattamento dei dati personali, alla privacy, alla modalità di diffusione delle challenge, all’utilizzo da parte di minori e under-14, eccetera.
Per contro, è necessaria da parte di tutti – ragazzi, genitori, formatori vari – una sana consapevolezza nell’utilizzo responsabile delle tecnologie digitali (c’è chi l’ha chiamata tecnoconsapevolezza) unita a una grande dose di rispetto per le persone, soprattutto le più fragili o sofferenti.
In fondo, che cos’è più importante? La persona, la tecnologia o la notizia sensazionale?
Giovani ed educazione, social media, web e comunicazione. A caccia del buono e del bello, ma con poca mira.