In un precedente post abbiamo ampiamente trattato il tema del linguaggio inclusivo (da alcuni definito linguaggio neutro), con un occhio di riguardo alle questioni di genere. Proprio nel contesto della parità di genere, lo scopo del linguaggio inclusivo/neutro è riequilibrare ciò che la storia ha sbilanciato, ossia le forme linguistiche che pongono il maschile davanti al femminile.
Ma come si fa? È davvero possibile? E soprattutto: cosa significa davvero usare un linguaggio capace di includere?
Come rendere inclusiva la lingua? Il parere dell’Accademia della Crusca
Nata a Firenze nel 1583, l’Accademia della Crusca è una delle massime autorità linguistiche italiane. Da secoli studia la nostra lingua e la sua evoluzione, pubblicando pareri e indicazioni. Nel 2012 la Crusca ha pubblicato delle Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo (Regioni, Comuni, ecc.), dalle quali possiamo dedurre alcune forme linguistiche utilizzabili in senso inclusivo anche in contesti non propriamente amministrativi. Web compreso.
Innanzitutto, moltissime parole che apparentemente hanno solo la versione maschile possono essere correttamente declinate anche al femminile. E quando si dice “correttamente” non si intende politicamente corretto, ma correttezza grammaticale. Per esempio:
- Sindaco/Sindaca;
- Impiegato/Impiegata;
- Assessore/Assessora;
- Cavaliere/Cavaliera;
- Muratore/Muratrice;
- Presidente/Presidentessa (non Presidenta);
- ecc.
Queste forme linguistiche possono far storcere il naso: in realtà sono forme perfettamente contemplate dalla grammatica odierna, anche se il loro utilizzo è stato – finora – limitatissimo. Forse ci prude il fatto che non siamo abituati a sentir parlare di senatrice o direttrice. Faremmo bene a ricordare quando, a catechismo, abbiamo imparato la preghiera del «Salve Regina», in cui a un certo punto Maria viene definita «avvocata». Tutt’altro che un’eresia.
Fatta questa premessa, l’Accademia della Crusca invita a distinguere diverse casistiche, che trovi sintetizzate in queste tabelle.
Riferimento a una persona ben definita
Regola | Esempio sbagliato | Esempio corretto |
---|---|---|
Utilizzare il genere grammaticale corrispondente al genere del soggetto | Al sindaco Maria Rossi | Alla sindaca Maria Rossi |
Riferimento a più persone (il plurale)
Regola | Esempio sbagliato | Esempio corretto |
---|---|---|
Uso simmetrico del genere | Cari amici Il sottoscritto |
Cari amici e care amiche Il/La sottoscritto/a |
Oscuramento di entrambi i generi | Diritti dell’uomo I dipendenti |
Diritti umani Il personale |
Riformulazione con pronomi indefiniti | Il vincitore riceverà | Chi vince riceverà |
Uso della forma passiva | Gli studenti devono portare la giustificazione | Si deve portare la giustificazione |
L’Accademia della Crusca raccomanda l’uso simmetrico del genere solo in casi di testi brevi o moduli da compilare, perché lo sdoppiamento dei termini rischia di rendere il testo poco lineare e difficile da leggere o ascoltare. Inclusività e leggibilità devono comunque andare a braccetto.

Asterisco, chiocciola o altro?
Eccola lì, la prassi che si sta diffondendo soprattutto sul web (ma non solo, come testimonia la foto). L’uso dell’asterisco o della chiocciola per indicare la neutralità (bada bene: non l’inclusività) di genere di una parola, soprattutto nel caso dei plurali. Per esempio un post su Instagram che inizia con [Ciao ragazz*] oppure [Car@ amic@].
L’Accademia della Crusca, nel documento citato poco fa, è piuttosto decisa nelle sue Linee guida, affermando che
«L’uso di forme abbreviate attraverso espedienti grafici […] è da evitare perché può ostacolare la lettura e la comprensione del testo».
La Crusca si riferisce soltanto a testi in forma scritta. E nell’italiano parlato? Per esempio un podcast o un video? In questi casi l’uso dell’asterisco o della chiocciola diverrebbe ancor più problematico, perché non hanno un suono linguistico corrispondente. Come pronunci un asterisco?
Forse il problema non si risolve con *.

Idea: una nuova lettera. Ecco lo schwa ə
Lo schwa è una specie di e rovesciata che compare – da decenni – nell’Alfabeto fonetico internazionale, la scrittura utilizzata per descrivere i suoni delle lingue di tutto il mondo (sembra impossibile, eppure…). Esiste anche una versione plurale, nella forma del cosiddetto schwa allungato (il cui simbolo è з). Il suono dello schwa è un misto tra una a e una e; nell’italiano standard non esiste questo suono, ma si può trovare in alcune forme dialettali piemontesi o meridionali.
La sociolinguista Vera Gheno ne ha teorizzato l’utilizzo per descrivere i plurali di composizione mista (cioè quelli comprendenti sia soggetti maschili che femminili), in una forma capace di includere anche soggetti che non si riconoscono nei generi binari maschile o femminile.
In sintesi: lo schwa è un carattere tipografico neutro che, per giunta, ha un suono. Problema risolto? Insomma…
La novità è radicale, soprattutto perché apre a nuovi suoni non derivanti da una naturale evoluzione della lingua italiana. In altri termini, si introduce un “trucchetto” che non è figlio di un nuovo utilizzo di parole o suoni. Non è detto, quindi, che il tempo dia ragione all’introduzione dello schwa: ricordiamo, infatti, come una novità linguistica, per essere ufficializzata, deve entrare assiduamente nell’uso, scritto e parlato, della società. Un traguardo che lo schwa è ben lungi dal tagliare.
Come se non bastasse, riferendosi allo schwa la stessa Gheno ne vede «i limiti fortissimi» e il presidente dell’Accademia della Crusca, nel contesto di una polemica giornalistica, si è espresso in direzione contraria all’uso dello schwa.
Lettera del nostro presidente Claudio Marazzini a @MassimGiannini, direttore @LaStampa pic.twitter.com/a1RyZUGWpY
— Accademia della Crusca (@AccademiaCrusca) July 30, 2020
Neutralità o inclusione? Forse la soluzione è valorizzare
Tutte queste proposte – compresi asterischi e schwa – mirano ad appianare le discriminazioni, affrontando il problema da versanti molto diversi. Intento saggio, soluzioni non sempre all’altezza. La soluzione schwa è quella che più si avvicina alla meta, ma il percorso è lunghissimo. E comunque, in tutta onestà, punta all’inclusività mediante la scorciatoia della neutralità: come abbiamo visto, non è esattamente la stessa cosa.
In un’epoca storica in cui nessuno sa bene chi è, è utile constatare che la neutralità non aiuta le persone a esprimere sé stesse e la realtà perché, per definizione, tende a semplificare, rimuovendo (quindi impoverendo) la capacità lessicale e sintattica. Quindi semantica. Se ho meno opzioni, ho minori possibilità di descrivere la realtà. E questo è fonte di disagio per chi, in un certo senso, non si ritrova nelle opzioni linguistiche neutrali. Utilizzare il linguaggio inclusivo al posto del linguaggio neutro può davvero essere la chiave per offrire parità linguistica valorizzando per giunta la bellezza della realtà e delle sue sfaccettature, senza semplificare rimuovendo i suoi connotati.
Cosa ne pensi, amico? Cosa dici, amica?

Giovani ed educazione, social media, web e comunicazione. A caccia del buono e del bello, ma con poca mira. Papà. Giornalista.