Recentemente ha fatto discutere la proposta del deputato renziano Luigi Marattin, il quale prospetta di subordinare l’iscrizione a un social media alla registrazione di un proprio documento di identità, il tutto al fine di individuare facilmente chi è dedito alla fabbricazione di fake news o chi si dedica a spargere odio verso determinate persone. Detta in altre parole, se vorrai iscriverti a Instagram, TikTok, Twitter, ecc., dovrai fornire i dati della carta di identità.
Da oggi al lavoro per una legge che obblighi chiunque apra un profilo social a farlo con un valido documento d’identità. Poi prendi il nickname che vuoi (perché è giusto preservare quella scelta) ma il profilo lo apri solo così.
— Luigi Marattin (@marattin) October 29, 2019
La proposta – subito ricalibrata dallo stesso Marattin – ha suscitato diverse risonanze da parte di esperti di comunicazione (su tutte quelle di Riccardo Luna su Repubblica e Gigio Rancilio su Avvenire) e, sebbene decisamente impraticabile, ha sicuramente centrato uno dei maggiori problemi del nostro tempo: la deregolamentazione del web, una carenza che alle volte traveste le discussioni sui social in una specie di Call of duty, in cui tutti sparano contro tutti.
Sarà sicuramente capitato anche a te, nel tuo piccolo, di essere vittima di una fake news (magari anche condivisa, inconsapevolmente) o di aver letto commenti di odio «gratuito» ai danni di qualche persona in rete. Il problema c’è e, in aggiunta, è capace di fare molto rumore.
Ma noi che possibilità abbiamo? Le strade sono tre.
Ciak 1, azione: il consumo responsabile
La prima strada, difficilissima ma irrinunciabile, consiste nel fare pressione sui grandi social media, affinché attuino politiche stringenti di contrasto alle fake news e alla diffusione dell’odio in rete. C’è da dire che Facebook, da parte sua, si è finalmente dato da fare rimuovendo recentemente diverse pagine neo-fasciste. Meglio ancora ha fatto Twitter, il quale, tramite il suo fondatore Jack Dorsey, non ha mai nascosto che molte delle azioni di contrasto alla violenza in rete sono state portate a termine anche a costo di chiudere profili (quindi «perdere utenti») e/o bloccare ingenti somme di denaro in termini di pubblicità degli utenti. La sfida sarà far percepire il problema al gigante cinese TikTok, la pimpante new entry nel panorama dei social media.
We’ve made the decision to stop all political advertising on Twitter globally. We believe political message reach should be earned, not bought. Why? A few reasons…?
— jack ??? (@jack) October 30, 2019
Tornando al consumo responsabile, occorre rendersi conto che ciascuno di noi, pur essendo un utente medio-piccolo, è fonte di guadagno per gli stessi social media. Siamo clienti da profilare, destinatari di inserzioni pubblicitarie mirate, piccoli ingranaggi del motore che fa vivere i grandi social media. Ma se gli ingranaggi, insieme, si bloccassero…
Come? Per esempio con «scioperi della navigazione» in caso di derive estreme, oppure (più semplicemente) segnalazione massiccia degli account che effettivamente diffondono fake o odio. Occhio, però: non confondere questi profili con chi, semplicemente, ha un’idea diversa e la esprime per bene.
Ciak 2, azione: segnalare e chiedere aiuto
Un secondo pressing ha a che fare con la giustizia. Se è vero che le aziende di social media hanno dimensioni mondiali (quindi sfuggono a una legislazione uniforme), è altrettanto vero che i singoli stati hanno la possibilità di agire nei confronti di chi si rende artefice di diffamazione o pubblicazione/diffusione di notizie false. Non si tratta di navigare su Instagram con la stellina dello sceriffo o con il blocchetto delle contravvenzioni, ma di sapere che chi esagera può essere segnalato e debitamente bloccato. Sempre che, prima, non si ravveda.
Ciak 3, azione: la crescita positiva
Dulcis in fundo. La terza strada è difficile a sua volta, ma più immediata e personale. Forse è la migliore: consiste nel prendere consapevolezza che ciascuno di noi può potenzialmente essere un fabbricatore/diffusore di fake news o uno spargitore di odio on-line. Basta un commento dai toni accesi, una condivisione fatta con le emozioni e non con «la testa», una foto che forse era meglio tenere nel cellulare. Basta poco per fare danni, ma basta altrettanto poco per evitarli. Si chiama crescita, miglioramento. Qui ci piace chiamarla positività.
Quando abbiamo in mano lo smartphone, dietro al display ci sono migliaia (talvolta milioni) di persone che non conosciamo, ma che ci vedono: guardano ciò che pubblichiamo, leggono ciò che scriviamo, scorrono il nostro stream. Perché non usare questo (enorme) potere per evitare la negatività, oppure – persino – per scopi positivi? Gentilezza, bontà e bellezza sicuramente faranno perdere uno o due follower, ma il tornaconto è enorme in termini di qualità e stima: on-line sarai una persona stimata, sincera, portatrice di qualità. E scusa se è poco!

Giovani ed educazione, social media, web e comunicazione. A caccia del buono e del bello, ma con poca mira. Papà. Giornalista.